OTTO IL BUFALOTTO
- Categoria: Racconti
- Pubblicato: Domenica, 30 Giugno 2019 00:00
- Scritto da Maria Grazia Sereni
Stamane ho visto la prima luce della mia vita.
Traballando sulle gambe ancora deboli, sono riuscito a raggiungere la mammella di mamma. Non avevo ancora terminato il pasto che sono arrivati due umani, mi hanno sollevato la coda e mi hanno staccato da mamma.
“Che volete?” ho muggito – veramente era quasi un vagito – appoggiato dalle rimostranze della mia genitrice, rimostranze che diventavano sempre più disperate a mano a mano che gli umani mi allontanavano da lei.
Sono stato sbattuto in una stanza col pavimento coperto di paglia, dove ho trovato altri due compagni di sventura.
“Salve,” muggisce il primo. “Non pensare che ti sia capitato il peggio. Ho visto mio cugino soffocato con della paglia in gola. Un altro nostro coetaneo sotterrato vivo nel letame. Non so che ne sarà di noi; però siamo ancora vivi!”
“Sai che consolazione!” mugola il secondo. “Credi che ci allattino? Credi che si prendano cura di noi come avrebbero fatto le nostre madri?”
Scuoto il capo: ho paura, una paura tremenda, ho tanta voglia di sentire la lingua di mamma sul corpo, ma prevedo che nulla sarà come prima, mai più.
Quando il buio vince la battaglia con la luce, alcuni umani vengono, ci legano delle corde al collo e ci trascinano fuori della stanza. Tutti noi cerchiamo di puntare le zampe, chiamiamo le nostre mamme – che rispondono inconsolabili –, ma non c’è nulla da fare: gli umani vincono la tenzone. Poi ci caricano su un furgone che parte sgommando.
Dopo un tempo interminabile, il furgone si ferma; ci fanno scendere e ci legano a tre alberi vicini. Le corde sono talmente corte che non riusciamo a muoverci, così non ci resta che lamentarci con la luna per il trattamento subito.
Restiamo in questa situazione per ben tre giorni. La sete e la fame fanno strage della poca energia che ci è rimasta, e noi non sappiamo più se augurarci una morte immediata o se sperare ancora in un’improbabile salvezza.
“Perché?” chiedo ai miei compagni. “Perché ci hanno fatto questo?”
Poi collasso. Le mie zampe non mi sostengono più, e io mi accascio a terra mentre la corda stretta intorno al collo tira a più non posso, quasi soffocandomi.
Proprio allora sentiamo il rumore di un motore – come quello che ci ha trasportati fin qui –, e noi cominciamo a muggire sottovoce con il terrore che siano tornati i malvagi per finirci.
Il veicolo a motore si ferma, ne scendono due umani che ci guardarono esterrefatti.
“Questa poi!” dice uno. “Ma che cosa è successo a questi poverini?”
“Semplice. Sono di sicuro maschi, nati da bufale dal cui latte si ottiene la famosa mozzarella. Saranno stati allontanati dalle mamme appena nati e legati a queste piante in attesa che sopraggiunga la morte. Una morte lenta e dolorosa a causa della mancanza di cibo e di acqua. Vedi, i maschi non forniscono latte, e un’azienda che produce mozzarelle ha bisogno di femmine. Così i poverini vengono o soppressi direttamente – ma poi non è facile smaltire le carcasse – o abbandonati come questi.”
“Sono sfortunati a essere nati maschi!”
“No, proprio no. Anche le femmine sono tolte appena nate alle madri – il cui latte serve per le mozzarelle e non per allattare la prole – e quindi nutrite con dei beveroni industriali.
Vieni, aiutami a slegarli; dobbiamo prenderci cura di loro subito, prima che sia troppo tardi.”
Così ci slegano, ci caricano sul loro veicolo dove ci viene somministrata un po’ d’acqua da una bottiglia. Nettare, puro nettare!
Il veicolo ci conduce in una fattoria. Qui ci mettono a disposizione abbondante acqua e dei grossi biberon dai quali succhiamo avidamente il latte che contengono.
Sazi, ci sistemano all’ombra di alcuni alberi.
“Ci hanno salvati per farci ingrassare e poi mangiare, di sicuro!” si lamenta un mio compagno.
“Per ora mi godo le cure,” decido saggiamente, “poi si vedrà!”
Dopo una settimana già camminiamo sulle nostre zampe e assaporiamo la libertà, anche se il pensiero della mia mamma rende tutto meno idilliaco.
Poi, un giorno, arriva un altro veicolo a motore dal quale scendono due umani, un maschio e una femmina. Si avvicinano a noi – che già tremiamo – e ci marchiano l’interno di un orecchio.
“Così sarà sempre possibile identificarli,” spiega l’umano femmina con un sorriso.
Oggi mi è stato imposto il nome di Otto. Mi hanno detto che resterò in questa fattoria fino alla fine dei miei giorni. Hanno aggiunto che sono un bufalotto e che sono stato molto fortunato rispetto a tanti miei compagni che non si sa che fine abbiano fatto. Io sono d’accordo nel definirmi fortunato, però toglierei quel molto perché, non poter crescere accanto alla propria madre, è una cosa tristissima.