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LA RETE GALEOTTA

  • Categoria: Racconti
  • Pubblicato: Mercoledì, 29 Dicembre 2021 00:00
  • Scritto da Maria Grazia Sereni

 

tordo

È giunto marzo e, con i miei compagni, ci stiamo preparando alla migrazione che ci porterà in Scandinavia.

Là noi femmine ci dedicheremo alla costruzione dei nidi per le covate che nasceranno in aprile.

Sono tutta eccitata: è il mio primo viaggio da sposata e sono certa che i nostri piccoli saranno magnifici.

Bene, il raduno è completo, e tutti insieme spicchiamo il volo seguendo le guide.

È meraviglioso volare con i nostri compagni, ci si sente protetti anche dai predatori e poi si ha il tempo di scambiare qualche chiacchiera leggera con i vicini.

Ma che sta succedendo?

Mi sono impigliata in qualcosa di morbido dal quale però non riesco a districarmi, e così è successo a tanti di noi – quelli che volavano più bassi.

Garrisco a più non posso per chiedere aiuto, ma nessuno dei miei compagni di sventura è messo meglio di me.

“Che hai Dina da chiamare?” mi interroga Dino, il mio compagno, dall’alto.

“Sono invischiata in una cosa che mi impedisce di liberarmi. Puoi aiutarmi?”

“Proverò!” esclama Dino dirigendosi verso il luogo dove sono rimasta impigliata.

Prima di avvicinarsi però, il mio compagno dichiara: “Non c’è nulla da fare. Sei incappata in una rete dalla quale è quasi impossibile liberarsi. Mi dispiace. Addio piccola Dina. Ti ricorderò sempre,” dichiara prima di volarsene via per raggiungere i nostri compagni.

“Ma come?” zirlo a più non posso. “Mi lasci così?”

Non ricevendo risposta e, conscia della mia situazione, smetto di battere le ali per liberarmi, nell’attesa che il mio destino si compia.

Verso l’imbrunire giungono sul luogo degli umani che, con malagrazia, ci tolgono dalle reti e ci infilano in sacchi.

I sacchi vengono quindi caricati su un’auto che parte per ignota destinazione.

“Sapete che cosa ci succederà ora?” chiedo ai più anziani.

“Mi è stato raccontato che noi fungeremo da richiami vivi per i cacciatori. Quindi ora questi umani ci venderanno ai cacciatori che ci terranno in gabbiette fino al periodo della caccia.”

“Ma cosa sono questi richiami vivi?”

“Nel periodo della caccia gli umani ci porteranno con loro, chiusi nelle nostre gabbie. Ci faranno quindi cantare per attirare i nostri compagni ai quali spareranno.”

“Ma è orribile! Io non canterò di certo a comando. Non voglio danneggiare i tordi liberi.”

“Canterai, canterai! Gli umani hanno metodi molto convincenti.”

Sono sbalordita e confusa. Proprio a me doveva capitare una cosa del genere? Ma poi penso a tutti i miei compagni di sventura e spero, anche se debolmente, di trovare con loro una soluzione per risolvere il nostro problema.

Nel frattempo siamo arrivati non so dove perché, chiusa nel sacco, non riesco a vedere nulla.

Siamo trasportati all’interno di una costruzione e sistemati in gabbie che possono contenere al massimo tre o quattro di noi, dove invece siamo in una dozzina.

Zirliamo il nostro disappunto per almeno una decina di minuti, poi ci azzittiamo. Siamo stanchi, provati e non sappiamo esattamente che cosa ci aspetta.

Il giorno successivo riceviamo la visita dei cacciatori. Solo la parola mi fa tremare, ma ora sono senza fucili e quindi innocui.

Siamo acquistati – così almeno ho sentito dire – da tre di loro e portati via da quel posto lugubre.

Posto che rimpiango subito quando arrivo a destinazione.

La gabbia grande – per modo di dire – è stata svuotata e ognuno di noi viene infilato in un contenitore così minuscolo che non mi permette neppure di aprire le ali.

Sento odore di sofferenza e di morte in questo buco sporco ma, quello che mi fa impazzire è la totale assenza di luce quando i cacciatori se ne vanno.

Siamo immersi nel buio più completo, impossibilitati a muoverci, con nessuna prospettiva di miglioramento per il futuro.

“Dovremo passare il resto della vita in questo tugurio?” chiedo al mio vicino di cella.

“Sembra proprio di sì,” mi risponde quello che, in un accesso di isterismo inizia a strapparsi le piume.

“Calmati Tizi, non fare così. Qui c’è freddo e noi abbiamo bisogno di calore per sopravvivere.”

“Perché tu vuoi sopravvivere in queste condizioni? Io preferisco morire subito: non mangerò nulla, se pur saremo nutriti, non canterò mai più la mia gioia di vivere e il mio amore nella stagione giusta.

Ho deciso.”

Proprio in questo momento si è accesa una luce e un umano arriva con il cibo per tutti. Si tratta di mangime chimico di cui mi nutro avidamente: io voglio sopravvivere, chissà che accada qualche prodigio. Tizi invece rifiuta il cibo che mi affretto a divorare in vece sua.

Sono trascorsi molti giorni – non ne ho cognizione esatta perché siamo per la maggior parte del tempo al buio –, sono ingrassata, stressata, infelice e molto probabilmente malata. Ho spesso tremori in tutto il corpo che si trasmettono alla testa e che mi fanno perdere la nozione del mio stato. A volte sono convinta di essere in volo con gli altri tordi, di cantare per comunicare a Dino che sono pronta alla cova, ma poi mi sveglio dal torpore solo per rendermi conto della mancanza di libertà.

Ormai non zirlo neanche più: a che servirebbe?

Stamani mi hanno infilato nel becco delle cose bianche che ho deglutito perché obbligata e oggi mi sento come se fosse arrivata la stagione degli amori: una gran voglia di cantare e di muovermi, librarmi leggera nell’aria con il vento che mi solletica la pancia.

E invece esco sì all’aperto, ma sempre chiusa nel mio loculo.

Dopo un viaggio piuttosto lungo, le nostre minuscole gabbie sono esposte al chiaro sotto un albero frondoso.

La luce mi ferisce gli occhi abituati al buio. Ma io canto e canto a più non posso, mettendo nel mio canto tutta la voglia di libertà e di vita.

Dall’alto scendono a vedere che cosa sta accadendo alcuni nostri simili che cadono immediatamente sotto il fuoco dei cacciatori.

Allora mi azzittisco, piego la testa di lato e mi propongo di non cantare più. Ma non riesco, è più forte di me!

Odio la rete che mi imprigionò e mi obbligò a essere morte per i miei compagni liberi. Odio anche gli umani che mi hanno ridotta in queste condizioni.

Ha avuto ragione Tizi a non voler più vivere!