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L'IMMIGRATO

 

 

 

IMMIGRATICamminava adagio, testa bassa e occhi semichiusi. Rasentava i muri affinché la sua presenza fosse meno notata, ma la fame stava divorando il suo povero corpo. Per la sete si era arrangiato con le fontane dei giardini pubblici che in quel quartiere abbondavano, ma la fame lacerava i suoi pensieri: non c’era in essi che un pezzo di pane, anche stantio.

Barcollando per la debolezza non si avvide di un ragazzo che gli si parò davanti all’improvviso.

“Stai attento a dove vai, negro!” gli gridò, spingendolo da parte.

Il suo primo impulso fu di aggredirlo, ma la debolezza e le conseguenze glielo sconsigliarono. Così proseguì per la sua strada (ma quale strada? Non sapeva proprio dove dirigersi. Forse verso una chiesa?)

Osservò i dintorni ma non vide chiese, solo case e negozi pieni di tutto ciò che a lui mancava. Entrò in una panetteria, attese che i clienti fossero usciti tutti e poi, in un italiano stentato, chiese un pezzo di pane, anche vecchio.

La ragazza gli allungò un panino fresco e lo pregò di andarsene subito, prima che il proprietario se ne accorgesse.

Appena fuori dal negozio, il poveretto addentò il suo panino e lo divorò con una voracità che non ricordava di aver mai posseduto. E, mentre mangiava, udì chiaramente che la ragazza veniva rimbrottata dal proprietario: “Adesso quello tornerà tutti i giorni. Ti proibisco di dargli ancora qualcosa. Quelli sono cani randagi che, se si incattiviscono, chissà cosa succede!”

Anche se il panino gli aveva dato un certo sollievo, quelle parole lo precipitarono in uno sconforto abissale. Che cosa aveva fatto per essere trattato in quel modo? Per il colore della sua pelle? Perché non aveva mezzi di sussistenza? O solo perché la gente non voleva accollarsi i problemi degli altri? (forse ne aveva già abbastanza dei suoi).

Un bimbo gli si avvicinò piangendo: “Voglio la mia mamma!” e lui fece qualche passo indietro per allontanarsi da quel problema. Poi ricordò di aver criticato chi si comportava a quel modo e, se pur timoroso che qualcuno potesse attribuirgli la colpa di quella situazione, pensò a come risolverla. Innanzitutto scrutò i dintorni. Magari la madre era nei paraggi, ma non vide nulla. Allora prese per mano il bimbo e lo condusse davanti alle vetrine dei negozi, esortandolo a guardare se all’interno ci fosse la sua mamma. Furono entrambi fortunati: nel panificio la madre stava facendo acquisti e non si era accorta che il piccolo si era allontanato.

“Grazie, grazie infinite. Come posso ricambiare?”

“Io bisogno lavorare. Tu puoi aiutare me?”

La donna ci pensò un poco, poi scosse la testa e: “Mi dispiace, non posso aiutarti. Tieni,” lo invitò porgendogli cinque euro.

Con la banconota in mano, una lacrima sulla guancia, il nero scosse la testa, restituì i soldi e fuggì.

Il suo mondo, quello che aveva da poco abbandonato, non era così. Là tutti si interessavano di tutti, se c’era un problema, in qualche modo era risolto. Nessuno si permetteva di umiliare gli altri se non i delinquenti, quelli che derubavano i poveretti, li malmenavano e schiavizzavano.

Qui, è vero, c’era abbondanza di tutto, ma a chi era riservata?

Continuò a camminare, sempre più avvilito, senza sapere dove dirigersi. Incontrò quindi un suo conterraneo e gli chiese aiuto.

“Da quanto sei qui?”

“Da ieri sera. Ho dormito in un giardino pubblico e ho mangiato solo un pezzetto di pane. Che cosa posso fare?”

“Hai i documenti in regola?”

“No, ti ho detto che sono appena arrivato.”

“Per prima cosa devi andare al posto di polizia e chiedere asilo politico. Loro sanno che nel nostro Paese c’è la guerra e ti aiuteranno di certo. Poi, te lo diranno loro, dovrai chiedere il permesso di soggiorno che ti verrà concesso solo se potrai dimostrare di lavorare.”

“E se non faccio quello che mi hai detto, che cosa succede?”

“Se ti beccano, ti rimpatriano e, nelle condizioni in cui sei, è facile che succeda.”

Annuì il poverino e, indeciso, se ne andò per i fatti suoi. Voleva sedersi su una panchina e pensare a quanto aveva appreso.

Trovò la panchina che faceva al caso suo, si sedette, appoggiò la testa sulle mani incrociate e cominciò a lasciar scorrere i pensieri.

Di lì a pochi minuti udì qualcuno che si sedeva accanto a lui. Lo guardò di sottecchi e vide che era un signore di mezza età. Anche il suo vicino lo guardò e: “Buona sera,” gli disse. “Ha bisogno di qualcosa, mi sembra un po’ sul disperato.”

“Sì, io appena arrivato in Italia. Bisogno lavorare. Tu puoi aiutare?”

“Certo, io mi occupo proprio di immigrati. Vieni con me.”

Si alzarono e il nero seguì il bianco con il cuore pieno di speranza.

Arrivarono davanti a un immobile pieno di luci. L’italiano invitò lo straniero a entrare e lo fece attendere qualche minuto nell’ingresso. Poi lo chiamò e gli presentò una signora anziana che gli parlò così: “Questa è una casa di riposo per persone abbandonate a se stesse o inabili. Abbiamo bisogno di manodopera in cucina e per le pulizie. Se sei disponibile, mi occuperò di farti avere i documenti e ti assumerò. La paga non è molto elevata perché i fondi sono miseri, ma avrai alloggio e vitto gratis. Allora? che mi dici?”

Il poveretto non aveva capito che un terzo di quello che gli era stato detto, ma confermò che lui era disponibile a lavorare, qualsiasi lavoro per lui andava bene.

La signora – la direttrice di quell’istituto – ringraziò il suo amico e pregò il nero di seguirla.

“Questo è il tuo letto,” glielo indicò in una stanza, dove se ne contavano una decina. “La cena sarà alle otto, perché alle sei mangiano i degenti. Quindi lavati, cambiati (questa è la divisa) e presentati in cucina alle cinque. Tutto chiaro?”

Il nostro amico disse di sì e, pur se stanco da morire, fece tutto ciò che gli era stato comandato o, comunque, che lui aveva compreso.

Alle quattro era già pronto e cercò la signora con cui aveva parlato al suo arrivo.

Lei lo ricevette nel suo ufficio e, contrariata, gli chiese: “Che c’è?”

“Io portato questo da mia Terra. Prendi, in segno di amicizia,” disse il nostro eroe porgendole una medaglia d’argento con inciso poche parole in una lingua ignota.

“Ma,” fece la signora, “questa è tua, non posso accettarla.”

“Prendi,” insistette il Nostro. “Tu fatto me grande regalo…”

“Grazie,” rispose la signora commossa, prendendo la medaglia.

Camminava adagio, testa bassa e occhi semichiusi. Rasentava i muri affinché la sua presenza fosse meno notata, ma la fame stava divorando il suo povero corpo. Per la sete si era arrangiato con le fontane dei giardini pubblici che in quel quartiere abbondavano, ma la fame lacerava i suoi pensieri: non c’era in essi che un pezzo di pane, anche stantio.

Barcollando per la debolezza non si avvide di un ragazzo che gli si parò davanti all’improvviso.

“Stai attento a dove vai, negro!” gli gridò, spingendolo da parte.

Il suo primo impulso fu di aggredirlo, ma la debolezza e le conseguenze glielo sconsigliarono. Così proseguì per la sua strada (ma quale strada? Non sapeva proprio dove dirigersi. Forse verso una chiesa?)

Osservò i dintorni ma non vide chiese, solo case e negozi pieni di tutto ciò che a lui mancava. Entrò in una panetteria, attese che i clienti fossero usciti tutti e poi, in un italiano stentato, chiese un pezzo di pane, anche vecchio.

La ragazza gli allungò un panino fresco e lo pregò di andarsene subito, prima che il proprietario se ne accorgesse.

Appena fuori dal negozio, il poveretto addentò il suo panino e lo divorò con una voracità che non ricordava di aver mai posseduto. E, mentre mangiava, udì chiaramente che la ragazza veniva rimbrottata dal proprietario: “Adesso quello tornerà tutti i giorni. Ti proibisco di dargli ancora qualcosa. Quelli sono cani randagi che, se si incattiviscono, chissà cosa succede!”

Anche se il panino gli aveva dato un certo sollievo, quelle parole lo precipitarono in uno sconforto abissale. Che cosa aveva fatto per essere trattato in quel modo? Per il colore della sua pelle? Perché non aveva mezzi di sussistenza? O solo perché la gente non voleva accollarsi i problemi degli altri? (forse ne aveva già abbastanza dei suoi).

Un bimbo gli si avvicinò piangendo: “Voglio la mia mamma!” e lui fece qualche passo indietro per allontanarsi da quel problema. Poi ricordò di aver criticato chi si comportava a quel modo e, se pur timoroso che qualcuno potesse attribuirgli la colpa di quella situazione, pensò a come risolverla. Innanzitutto scrutò i dintorni. Magari la madre era nei paraggi, ma non vide nulla. Allora prese per mano il bimbo e lo condusse davanti alle vetrine dei negozi, esortandolo a guardare se all’interno ci fosse la sua mamma. Furono entrambi fortunati: nel panificio la madre stava facendo acquisti e non si era accorta che il piccolo si era allontanato.

“Grazie, grazie infinite. Come posso ricambiare?”

“Io bisogno lavorare. Tu puoi aiutare me?”

La donna ci pensò un poco, poi scosse la testa e: “Mi dispiace, non posso aiutarti. Tieni,” lo invitò porgendogli cinque euro.

Con la banconota in mano, una lacrima sulla guancia, il nero scosse la testa, restituì i soldi e fuggì.

Il suo mondo, quello che aveva da poco abbandonato, non era così. Là tutti si interessavano di tutti, se c’era un problema, in qualche modo era risolto. Nessuno si permetteva di umiliare gli altri se non i delinquenti, quelli che derubavano i poveretti, li malmenavano e schiavizzavano.

Qui, è vero, c’era abbondanza di tutto, ma a chi era riservata?

Continuò a camminare, sempre più avvilito, senza sapere dove dirigersi. Incontrò quindi un suo conterraneo e gli chiese aiuto.

“Da quanto sei qui?”

“Da ieri sera. Ho dormito in un giardino pubblico e ho mangiato solo un pezzetto di pane. Che cosa posso fare?”

“Hai i documenti in regola?”

“No, ti ho detto che sono appena arrivato.”

“Per prima cosa devi andare al posto di polizia e chiedere asilo politico. Loro sanno che nel nostro Paese c’è la guerra e ti aiuteranno di certo. Poi, te lo diranno loro, dovrai chiedere il permesso di soggiorno che ti verrà concesso solo se potrai dimostrare di lavorare.”

“E se non faccio quello che mi hai detto, che cosa succede?”

“Se ti beccano, ti rimpatriano e, nelle condizioni in cui sei, è facile che succeda.”

Annuì il poverino e, indeciso, se ne andò per i fatti suoi. Voleva sedersi su una panchina e pensare a quanto aveva appreso.

Trovò la panchina che faceva al caso suo, si sedette, appoggiò la testa sulle mani incrociate e cominciò a lasciar scorrere i pensieri.

Di lì a pochi minuti udì qualcuno che si sedeva accanto a lui. Lo guardò di sottecchi e vide che era un signore di mezza età. Anche il suo vicino lo guardò e: “Buona sera,” gli disse. “Ha bisogno di qualcosa, mi sembra un po’ sul disperato.”

“Sì, io appena arrivato in Italia. Bisogno lavorare. Tu puoi aiutare?”

“Certo, io mi occupo proprio di immigrati. Vieni con me.”

Si alzarono e il nero seguì il bianco con il cuore pieno di speranza.

Arrivarono davanti a un immobile pieno di luci. L’italiano invitò lo straniero a entrare e lo fece attendere qualche minuto nell’ingresso. Poi lo chiamò e gli presentò una signora anziana che gli parlò così: “Questa è una casa di riposo per persone abbandonate a se stesse o inabili. Abbiamo bisogno di manodopera in cucina e per le pulizie. Se sei disponibile, mi occuperò di farti avere i documenti e ti assumerò. La paga non è molto elevata perché i fondi sono miseri, ma avrai alloggio e vitto gratis. Allora? che mi dici?”

Il poveretto non aveva capito che un terzo di quello che gli era stato detto, ma confermò che lui era disponibile a lavorare, qualsiasi lavoro per lui andava bene.

La signora – la direttrice di quell’istituto – ringraziò il suo amico e pregò il nero di seguirla.

“Questo è il tuo letto,” glielo indicò in una stanza, dove se ne contavano una decina. “La cena sarà alle otto, perché alle sei mangiano i degenti. Quindi lavati, cambiati (questa è la divisa) e presentati in cucina alle cinque. Tutto chiaro?”

Il nostro amico disse di sì e, pur se stanco da morire, fece tutto ciò che gli era stato comandato o, comunque, che lui aveva compreso.

Alle quattro era già pronto e cercò la signora con cui aveva parlato al suo arrivo.

Lei lo ricevette nel suo ufficio e, contrariata, gli chiese: “Che c’è?”

“Io portato questo da mia Terra. Prendi, in segno di amicizia,” disse il nostro eroe porgendole una medaglia d’argento con inciso poche parole in una lingua ignota.

“Ma,” fece la signora, “questa è tua, non posso accettarla.”

“Prendi,” insistette il Nostro. “Tu fatto me grande regalo…”

“Grazie,” rispose la signora commossa, prendendo la medaglia.