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IL GATTO CHE NON SAPEVA AMARE

  • Categoria: Racconti
  • Pubblicato: Martedì, 23 Luglio 2024 00:00
  • Scritto da Maria Grazia Sereni

 

la felina commedia

Il mio nome è Pally. Ho vissuto tempi migliori, ma quelli attuali non sono poi tanto male.

L’amica Chicca, da cui sono sempre stato attratto ma che non ha mai voluto essere mia, un giorno durante un alterco mi ha tacciato di egoismo: “Tu non sai amare né i tuoi simili né gli umani perché sei un gatto egoista,” ha dichiarato.

Non sono proprio sicuro del significato, tuttavia ho compreso che non si tratta di un complimento.

Più di una sera al chiaro di luna abbiamo discusso la sua opinione, ma finiva sempre in rissa.

Chissà se posso fidarmi del vostro giudizio… mi piacerebbe raccontarvi la mia vita, così voi potreste giudicare.

Dovreste tuttavia essere onesti, eh, e comunicarmi sinceramente la vostra opinione, anche se siete umani. Va bene? Allora comincio.

Nacqui, come la maggior parte di noi poveri randagi, in una remota fattoria.

Mia madre era sorella delle tre femmine che, insieme a lei, diedero alla luce non so quanti gattini.

Eravamo una forza della natura, almeno finché fummo allattati. Dopo, onestamente, il vitto non è che fosse abbondante: pane bagnato – quando andava bene nel latte – e quelle poche prede che mamma e le sue sorelle riuscivano a cacciare.

Non ricordo come accadde che fossi separato dai miei fratelli, so solo che un giorno mi trovai in una casa dove vivevano tre umani – due maschi, uno grande e uno piccolo, e una femmina adulta.

L’umana non mi voleva in casa, adducendo non ricordo quali problemi di pulizia, ma io ero ancora molto giovane e avevo bisogno di calore. Così, quando lei usciva per recarsi al lavoro, il ragazzino mi faceva entrare, mi coccolava, giocava con me e mi nutriva con tanti bocconcini prelibati.

La notte invece ero rinchiuso nel garage. Là non esistevano cucce di nessun tipo, non avevo a disposizione né acqua né cibo e neppure una cassetta per i bisogni che ero costretto a lasciare ben in vista negli angoli. Ero veramente triste!

L’umano piccolo crebbe, crebbi anch’io e le nostre strade si separarono.

Non mi dava fastidio abitare fuori di casa e la notte non mi lasciavo più rinchiudere in quel garage mefitico.

C’erano un sacco di posti comodi pronti ad accogliermi, non ultimo un garage di un vicino con la finestra sempre aperta, dove potevo trovare leccornie da principe e cucce da re.

La mia vita in quel periodo è stata molto avventurosa. Ho avuto un numero spropositato di avventure galanti; ho combattuto per il privilegio di una gatta con tipacci per nulla raccomandabili; ho abitato due case secondo la mia convenienza: la prima, finché la famiglia che mi aveva adottato si disgregò. L'umana femmina se ne andò (non saprei per quale motivo e neppure dove), l’umano grande morì (annusai l’odore della sua morte e vi assicuro che non fu per niente gradevole!) e quello piccolo si uccise (così dissero, ma io non so bene che cosa significhi, so solo che non lo vidi mai più).

Non piansi sul latte versato: mi restava ancora una casa.

Iniziai allora a frequentarla con maggiore assiduità, nonostante i gatti che là vivevano mi mostrassero fin troppo chiaramente la loro antipatia.

Poi cominciò il declino fisico. Non stavo bene: ero sempre arrabbiato, aggredivo tutti i gatti che mi capitavano a tiro e mangiavo poco a causa di dolorosi sommovimenti nel mio ventre.

L’umana della seconda casa decise allora di prendere provvedimenti. Mi allettò con carezze e ghiottonerie finché riuscì a catturarmi e a infilarmi in un trasportino.

“Ora ti porto dal veterinario. Vedrai che poi ti sentirai meglio,” dichiarò.

Giungemmo in un ambulatorio, dove un umano con camice verde (credo proprio che fosse il veterinario) mi fece piombare in catalessi con un’iniezione molto dolorosa.

Mi svegliai con un bruciore barbaro nel sottocoda, un’arsura nelle fauci e un intontimento nella testa.

Dopo venti giorni fui ricondotto dal solito veterinario che stavolta mi infilò un ago nel deretano. Ricambiai mordendogli la mano colpevole con gran gusto!

La settimana successiva, iniziai a sentirmi meglio e ora sono diventato un bel gattone, ben pasciuto e coccolato. Non ho più voglia di combattere per femmine e neppure di girovagare lontano da casa.

Perché, secondo voi, Chicca continua a definirmi un gatto egoista? Io ho fatto esclusivamente quello che ho ritenuto giusto nelle circostanze in cui mi sono trovato. Non pare anche a voi?

Che cosa dovevo fare? saltare sul destriero della morte insieme all’umano grande? o andarmene da casa insieme all’umana femmina? o suicidarmi – qualsiasi cosa voglia dire – insieme all’umano piccolo? Che cosa avreste fatto voi al mio posto?

Sì, sono un brontolone, lo so, ma chi non brontolerebbe ricordando fatti così terribili?

Allora? posso sapere qual è il verdetto?

Un gatto egoista io? Come vi permettete? Ma andatevene, via, via da qui, che non vi veda più!

Puah, doppio puah: gli umani non sanno che cosa significhi combattere tutti i giorni per un po’ di cibo!