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CENTO GIORNI DI SOLITUDINE

  • Categoria: Racconti
  • Pubblicato: Lunedì, 30 Settembre 2024 10:29
  • Scritto da Maria Grazia Sereni

 

HERBIE

Herbie è il mio nome, anzi Tato Herbie per la precisione. Sono un gatto di casa: non sono mai uscito dall’appartamento, dove mi hanno portato subito dopo che mia madre ha terminato di allattarmi.

Ho vissuto con una signora che, con il trascorrere del tempo – dieci anni per l’esattezza –, è diventata molto anziana e di salute cagionevole.

Un giorno accade che la mia amica se ne vada da casa, lasciandomi completamente solo. Non è che proprio se ne vada, è che la portano via distesa su una barella.

E io, come vi dicevo, resto solo, con nessuno che mi prepari i pasti e mi cambi la lettiera.

Dopo un paio di giorni si presenta il figlio della mia mammy scomparsa. Mi offre delle crocchette, cambia l’acqua della ciotola e mi fa un discorso strano: “Purtroppo mia madre è stata ricoverata in ospedale e non tornerà più. Non so che cosa fare con te. Da me non ti posso portare: mia moglie non vuole gatti in casa. Posso cercarti un’altra sistemazione, ma per ora dovrai stare qui. Verrò di tanto in tanto a darti da mangiare e a pulire lo sporco.”

Finito lo sproloquio, se ne va.

“Come sarebbe a dire di tanto in tanto? Io ho bisogno di mangiare tutti i giorni,” miagolo alla porta che si sta chiudendo.

E giungono allora i tempi spaesati in cui nessuno sente i miei lamenti; i tempi tristi in cui nessuno mi accarezza; i tempi solitari in cui nessuno riempie il deserto della mia esistenza.

Quanto a lungo sono stato solo? Di preciso non lo so.

Poi improvvisamente la mia vita subisce una totale metamorfosi.

Il figlio viene con una gabbia, dove mi infila nonostante il mio dissenso – se ne ricorderà a lungo per le ferite alle mani procurate dai miei artigli!

In auto miagolo a squarciagola perché mi sento perduto.

Dove mi sta portando? Che cosa mi accadrà?

Infine arriviamo in una casa nuova. Qui la gabbia viene aperta e mi è consentito di uscire.

La stanza è grande ma gremita di gatti sconosciuti. Soffio il mio disappunto, quindi mi infilo sotto il reggi-legna di un camino spento e da là osservo e ascolto quanto sta accadendo.

“Ti ringrazio per aver accettato di prenderlo: lui è stato abituato in casa e mi sarebbe spiaciuto doverlo portare in un rifugio,” dichiara il figlio.

“Come si chiama?” chiede un’umana che scoprirò poi essere la mia nuova mammy.

“Tato. Puoi cambiargli il nome se non ti piace. Comunque, nel caso il gatto non dovesse abituarsi al nuovo ambiente, portalo pure al gattile.”

“Vedrai che non ci saranno problemi: non è certo la prima volta che devo inserire un nuovo gatto nella comunità!” dichiara la mia nuova amica.

Per due giorni non mi avventuro fuori dal rifugio improvvisato, se non per scaricare la vescica.

Mammy mi lascia stare, anzi mi propone dell’ottimo cibo senza invitarmi allo scoperto.

Il terzo giorno mi azzardo a uscire, ma i gatti di casa vogliono annusarmi, e a me la cosa non garba affatto.

Il più curioso di tutti è uno bianco di nome Abi, che ho soprannominato Biancaneve, al quale servo una lezione indimenticabile con graffi e morsi.

La mia nuova mammy, che nel frattempo ha aggiunto a Tato un altro nome, dopo averci separati mi informa: “Non essere così aggressivo Tato Herbie. In fondo i mici vogliono solo familiarizzare con te.”

“Beh, a me questo tipo di rapporto non interessa, quindi tienimeli lontano,” urlo per tutta risposta.

La mia amica se ne va sconsolata: spero abbia capito che sono un gatto determinato a far valere i miei diritti.

Qualche mese trascorre tra liti furibonde, grosse dormite e mangiate pantagrueliche.

“Vieni Herbie,” mi invita un giorno mammy, “questo è Toby. Lo abbiamo trovato abbandonato in un giardino pubblico. È un gatto giovane, quindi per favore non aggredirlo.”

“Basta che stia lontano da me e non gli succederà nulla,” esclamo infastidito.

Avrete capito amici che non amo le novità!

E invece, dopo circa una settimana, ecco arrivare un altro micio di nome Lallie, uno di quei gatti impiccioni che ti seguono ovunque e vogliono sempre farsi gli affari tuoi.

“Ehi,” lo avviso, “stammi bene a sentire: non voglio che tu ti permetta di passarmi accanto. Mi devi lasciare in pace, altrimenti ti farò assaggiare i miei artigli, chiaro?”

Beh, sapete che cosa fa quello? miagola “okay, okay” e mi si sfrega contro.

Con un ruggito tremendo lo metto in fuga e con un’occhiataccia gli proibisco di riprovarci.

Ma il carattere non si può cambiare.

Ogni giorno sono tormentato dalle sue effusioni; a volte prova persino a giocare con me, e io, a dire il vero, talvolta sono tentato di lasciarmi andare, ma poi mi ricredo.

Finché arriva il momento in cui il pivello si avvicina chiedendomi: “Di’ un po’ Herbie, che cosa ti è successo che ti ha reso tanto scontroso?”

Inaudito! Mi ha rivolto la parola per primo. Lo fulmino con un’occhiata di fuoco e incontro due occhi dolci e sinceri come mai nella mia vita ho veduto, neppure tra gli umani.

“Sono stato abituato a stare solo,” mi sento rispondere.

“Quanto tempo sei stato solo?” insiste il pivello.

“Circa cento giorni,” azzardo, “così, a spanne.”

“Sono tanti?” chiede lo sbarbatello.

“Eh sì. Più che tanti sono lunghi, non passano mai.”

“Ora ci siamo qui noi. Vedrai che non ti sentirai mai più solo. Vuoi fare la lotta con me?”

“No, ti ringrazio. Sono troppo stanco. Magari domani,” rispondo con un enorme sbadiglio.