PLASTICA NELLA FOSSA DELLE MARIANNE
- Categoria: Ambiente
- Pubblicato: Giovedì, 11 Aprile 2019 00:00
- Scritto da Maria Grazia Sereni
Persino nella Fossa delle Marianne, l’abisso più profondo del nostro Pianeta, gli animali, anche i più piccoli, mangiano plastica per colpa nostra. Questo onnipresente materiale è arrivato fino a queste profondità e chi ci abita non può evitarlo. Lo studio della Newcastle University, triste e piuttosto inquietante, mostra inequivocabili contaminazioni anche nelle specie che vivono a quella profondità. E non si è salvato nessuno: tutti gli animali analizzati avevano ingerito plastica.
Era già noto che la plastica era in grado di arrivare anche nella Fossa delle Marianne, la più profonda depressione oceanica conosciuta al mondo, il cui picco, l’abisso Challenger, si trova a circa 10890 metri sotto il livello del mare. Ma ora, per la prima volta, gli scienziati hanno trovato tracce di microplastiche negli organismi che la popolano (e anche in altre cinque aree con una profondità di oltre 6.000 metri).
I ricercatori, di fronte a questa triste constatazione, hanno concluso come sia altamente probabile, ormai, che non vi siano ecosistemi marini non influenzati dall'inquinamento della plastica. E tutto, esclusivamente, per causa nostra.
Questa ricerca non ha trovato dunque buste che navigano nell’oceano (quelle già erano note, ahinoi), ma tracce di sostanze non biodegradabili di cui sono fatti abitualmente vestiti, contenitori e imballaggi, che, attraverso comuni e apparentemente innocui canali domestici (es. la lavatrice) si fanno strada verso gli oceani, dove si frammentano e affondano, arrivando anche nella Fossa delle Marianne, e lì ingerite da chi ci vive pacificamente.
Il gruppo di ricerca, in particolare, ha testato campioni di crostacei trovati negli abissi più profondi dell’Oceano Pacifico: la Fossa delle Marianne, ma anche in Giappone, Izu-Bonin, Perù-Cile, Vanuatu e isole Kermadec, da sette a oltre 10 chilometri di profondità, compreso il punto più profondo, l’abisso Challenger (10890 metri).
Le analisi sono state effettuate su 90 singoli animali e hanno trovato tracce di ingestione di plastica variabili dal 50% nella Fossa di Vanuatu al 100% nella parte inferiore della Fossa delle Marianne, includendo frammenti identificati di fibre cellulosiche semi-sintetiche, tutte utilizzate in prodotti come Nylon, polietilene, poliammide o polivinili non identificati ma simili ai comuni PVA e PVC.
L’oceano, dunque, è la nostra ultima discarica. “È intuitivo che l’ultimo “lavandino” per questi rifiuti, di qualsiasi dimensione, sia il mare profondo - spiega Alan Jamieson, coautore della ricerca – […] Se si contamina un fiume, si può pulire con un getto d’acqua. Se contamina una linea costiera, può essere diluita dalle maree. Ma nel punto più profondo degli oceani, il rifiuto affonda.” E qualcuno lo mangia inconsapevolmente.
Animali piccolissimi che mangiano fibre piccolissime dunque. E per dimostrarlo i ricercatori non si sono fermati alle immagini. Come riporta The Atlantic, infatti, quando il gruppo ha presentato i risultati alla rivista scientifica, i revisori incaricati dall'editore hanno chiesto delle prove che quei pezzetti fossero effettivamente plastica. Pezzi rosa, viola (come si vede nell'immagine), impossibile che provenissero dagli animali stessi. Ma comunque un team dedicato ha analizzato chimicamente le fibre, dimostrando che erano tutte sintetiche.
Gli effetti sulle specie di acque profonde non sono ancora chiari, in realtà, ma gli scienziati temono che queste abbiano gli stessi problemi sperimentati da altre creature che continuamente vengono trovate con gli stomaci pieni di plastica. Con l’aggravante che gli abissi, in generale, sono ecosistemi poveri di cibo, cosa che spinge i predatori a divorare tutto ciò che trovano. Plastica compresa.
Dall’Everest alla Fossa delle Marianne non c’è ormai punto troppo alto o troppo profondo in cui la plastica e i rifiuti non riescano ad arrivare. Un triste record di cui pagheremo tutti le conseguenze se non invertiamo al più presto la rotta.
Il lavoro è stato pubblicato sul Royal Society Open Science journal.
Roberta De Carolis