GUENDALINA LA PAPERA
- Categoria: Racconti
- Pubblicato: Giovedì, 24 Ottobre 2013 00:00
- Scritto da Maria Grazia Sereni
Insieme con le mie sorelle me ne sto nell’acqua a zampettare tranquilla, quando un cappio scende dall’alto e si stringe intorno al mio collo.
Starnazzo a più non posso finché una mano umana mi libera dalla cordicella e mi posa in una piccola scatola. Il buio non mi piace, io sono un’animale solare ma tant’è, devo adeguarmi alle circostanze. Dopo un lunghissimo viaggio fatto di rumori sconosciuti e di sballottamenti, finalmente giungo in una casa. O perlomeno spero che questa sia la mia nuova casa, anche se priva di erba e, soprattutto, di acqua. Mi mancano le mie sorelle, ma qui ci sono dei piccoli umani che mi accarezzano. Io, tutta felice, dimeno la coda per liberare l’intestino, ma qualcuno non è d’accordo. Vengo allora rimessa nella scatola e trasferita in un altro posto.
Stavolta mi sistemano in un bel praticello. Inizio a becchettare un po’ di erba, a dimenare la coda, a godermi la libertà di trasferirmi da un angolo all’altro. Qui tutto è meraviglioso.
Se in un primo tempo mi rallegro per la mia nuova sistemazione, devo subito
ricredermi: manca l’acqua sia da bere sia da sguazzarci e, soprattutto, non c’è compagnia. Così prendo a pigolare il mio dolore nella speranza che qualcuno possa aiutarmi.
E invece i miei guai non sono ancora iniziati.
Trascorro la notte assetata: sono piccola e non so come fare a procurarmi dell’acqua e anche il cibo è difficile da trovare.
Prima che cali la sera, un fringuello si posa vicino a me, insegnandomi a scavare con il becco il terreno per estrarne qualche grasso verme. Non è il mio cibo preferito, ma devo pur sopravvivere.
L’indomani mi sveglio ancora più assetata. Il prato viene invaso da macchine e da umani dotati di arnesi mai visti. Non so dove stare. Di tanto in tanto mi infilo per sbaglio tra le gambe di qualche operaio e ricevo così delle carezze pedestri poco gradite.
“Che cosa fai brutto omaccione,” grido a un umano che mi ha preso in mano e lanciata lontano dove atterro con un grido di dolore: devo essermi fratturata il femore perché non riesco a camminare.
Me ne sto buona buona lontano dal trambusto per tutta la giornata, cibandomi solo di qualche ciuffo d’erba. Verso sera, quando gli umani se ne vanno, tento di rialzarmi, ma la zampa mi fa troppo male.
Il mio amico fringuello torna a trovarmi, e io gli racconto della mia sventura. Lui è tanto carino da portarmi qualche vermiciattolo da sgranocchiare.
“Domani verrò con un mio amico merlo che, essendo più grosso di me, potrebbe darmi una mano per nutrirti mentre sei ferita. Una volta guarita, potrai fare da sola.”
“Sei molto, molto gentile e ti assicuro che avrai la mia eterna gratitudine.”
Il giorno successivo ricomincia il lavoro, e io me ne sto nascosta nel mio angolino in attesa che tutto termini. Solo allora i miei amici potranno venire ad aiutarmi.
È ancora chiaro quando gli umani se ne vanno, ma fa molto freddo e io sono assetata.
Il merlo e il fringuello giungono insieme (sono uccelli di parola!), e io li apostrofo con: “Ho tanta fame, ma soprattutto sete. Potete aiutarmi?”
“Per il cibo, non c’è problema: ti possiamo portare delle briciole di pane, dei vermi, puoi brucare un po’ d’erba, ma per l’acqua il discorso cambia,” sospira il merlo.
“Dovresti seguirci. Infatti, poco distante da qui c’è un fossato con acqua corrente…” dichiara il fringuello.
“Dici sul serio? Indicatemi la strada, farò del mio meglio per arrivare laggiù.”
I due amici volano sopra di me incitandomi ad alzarmi. Cerco di farlo, ma il dolore è veramente lancinante e io ricado al suolo priva di ogni volontà.
“Coraggio, piccola, fatti coraggio, non stare ad ascoltare il male, quando sarai in acqua, quella ti curerà, vedrai…” sussurra il merlo.
Mi rialzo, l’acqua è uno stimolo troppo forte per resisterle. Cerco di appoggiare il meno possibile la zampa ferita ma, fatti pochi passi, mi fermo a riposare: non ce la faccio proprio.
I miei amici, vista la scena, se ne vanno per tornare subito dopo: “Apri il becco,” grida il fringuello. Io obbedisco e qualche goccia d’acqua scende nella mia gola riarsa, gocciolando dalle piume dei miei compagni. L’operazione si ripete più volte finché sento di aver ingurgitato acqua a sufficienza per sopravvivere fino a domani. Ringrazio gli amici senza i quali non saprei proprio come cavarmela.
E spunta finalmente un nuovo giorno. I lavori continuano a ritmo serrato, il freddo si fa sempre più pungente, mentre io non riesco a muovere neppure pochi passi.
Sogno ad occhi aperti un corso d’acqua in cui potermi tuffare, sogno enormi quantità di cibo per mitigare i morsi della fame che, da quando sono stata lasciata in questo prato, non mi hanno mai abbandonata.
Tutta presa dalle mie fantasticherie, non mi sono accorta di una pala meccanica che sta scavando una grossa buca a pochi passi da me. Se non riesco a spostarmi in tempo, potrei finire sepolta dalla terra di riporto e così tento di fare qualche passo. Oh no! Non posso muovermi, il dolore mi paralizza. E ora?
Già un po’ di terra ha ricoperto la mia zampa destra. Allora urlo con tutta la potenza della mia voce: “Fermatevi per favore. Non posso muovermi, aiutatemi a spostarmi…” ma il lavoro umano prosegue senza interruzioni. Ho gli occhi sgranati dal terrore e piango, piango il mio addio alla vita.
Poi accade l’impossibile: due mani gentili mi sollevano, puliscono il mio candido mantello dalla lordura terrosa e mi abbracciano. Vengo allontanata dal luogo della sfiorata tragedia e portata in un’altra casa. Là vengo rifornita di acqua – un’intera ciotola! – di pane bagnato e di qualche chicco di grano. Volete che vi racconti la mia soddisfazione o riuscite a immaginarla? Dopo poco una vaschetta di acqua abbastanza grande da potermici muovere accoglie il mio corpo. Sono felice come solo una papera scampata a morte certa può esserlo. Durante le abluzioni gioiose osservo la mia benefattrice: è un’umana bellissima sia fuori che dentro, e io provo per lei un immenso amore.
(tratto dal libro "Animali, amici miei" pubblicato in marzo 2010)