BABETTE
- Categoria: Racconti
- Pubblicato: Mercoledì, 17 Febbraio 2021 00:00
- Scritto da Maria Grazia Sereni
“Che cosa ci fai qui tutta sola?” mi chiede un piccione.
“Scusa, non volevo importunarti, ma non so proprio dove andare,” rispondo impaurita.
“Oh non mi devi chiedere scusa, ti ho interrogato solo perché mi sembri sperduta. Se posso aiutarti, lo faccio volentieri.”
“Grazie. Io mi chiamo Babette e sono una maialina fuggita da un luogo orribile. Cammino da quattro giorni, mi sono nutrita di frutta e bacche, ma ora non riesco più a camminare. Sapresti dirmi dove posso riposare in un luogo sicuro?”
“Purtroppo no, però posso chiedere a Shelley. Lei è senz’altro in grado di aiutarti.”
Dopo queste parole di speranza, il piccione se ne va, lasciandomi di nuovo sola e sperduta con un’orribile sensazione di abbandono.
Giro in tondo – non voglio allontanarmi molto, non si sa mai che arrivi questa Shelley – strappo qualche foglia da un cespuglio, ingoiandola senza assaporarla e aspetto.
È quasi notte quando sento un grugnito familiare. Mi giro e mi trovo davanti a due occhi gentili che mi scrutano, e sono due occhi molto simili ai miei.
“Allora Babette? È questo il tuo nome, no?”
“Sì, e tu chi sei? Sei forse Shelley?”
“Sì, mi ha detto l’amico Trevis – il piccione – che hai bisogno di aiuto. Vieni con me, farai parte del mio gruppo.”
Non me lo faccio ripetere.
Giungiamo poco dopo in una tana dove entriamo. Ci vengono incontro otto piccoli che si attaccano subito al seno di Shelley.
“Questi sono i miei cinghialini. Erano dieci ma due sono stati mangiati da un’aquila di cui non mi ero accorta. Tu quanti anni hai Babette?”
“Un paio credo…”
“Bene, allora ti affido la sorveglianza dei miei cuccioli quando dovrò uscire per procurarmi del cibo, solitamente di notte.”
“Ma io…” balbetto, “ma io non so che cosa fare. Se viene un’aquila…”
“Non mi sono spiegata,” insiste Shelley. “Se vedi un predatore che si vuole pappare uno dei miei cuccioli, tu grida e io arriverò subito. Non mi allontano mai molto dalla tana.”
“Va bene,” acconsento più tranquilla.
Cala la notte, e Shelley mi saluta con un tocco di muso e se ne va. Io mi accuccio sull’entrata della tana, mentre i piccoli si sono ormai addormentati.
Tremo a ogni minimo rumore, annuso per bene l’aria per scoprire predatori in agguato, ma tutto fila liscio fino al ritorno della mia nuova amica.
Che mi ha portato delle ghiande, dei funghi e alcune saporitissime mele.
Ringrazio e mangio, dopodiché mi addormento accanto ai piccoli.
L’indomani Shelley ci conduce tutti sulla riva di un corso d’acqua e ci indica coll’esempio che cosa si aspetta da noi. Ci giriamo e rigiriamo nel fango della riva, e io mi sento felice, come mai lo sono stata nella mia breve vita.
“Allora?” mi domanda Shelley a un dato momento. “Che cosa ci fai da queste parti? Tu mi sembri un maiale di allevamento, non sei certo un cinghiale come me.”
“Hai ragione, sono una maialina che è riuscita a fuggire da un luogo orrendo: un mattatoio.”
“E che cosa sarebbe, di grazia, un mattatoio?” mi domanda la mia nuova amica stupita.
“È il luogo dove ammazzano gli animali.”
“E che cosa ci facevi là?” insiste Shelley.
“Vi ero stata portata con un camion pieno di miei simili. Dovevamo essere ammazzati perché la nostra carne piace agli umani e…”
“Ho capito, ma ora raccontami esattamente quello che è accaduto.”
“Sul camion ci avevano legato ciascuno al collo di un altro. Io avevo la corda che mi strozzava, così pregai il mio vicino di reciderla con i denti, in modo da avere maggior possibilità di movimento. Pensa che eravamo così frastornati che non pensavamo minimamente di fuggire. Lui, con i residui denti – perché appena spuntavano, ce li limavano – tentò più volte di rompere la corda e alla fine vi riuscì. Per contraccambiare, io masticai la sua di corda, così entrambi ci liberammo. Quando giungemmo al mattatoio, gli umani ci fecero scendere. Io e il mio vicino ci guardammo negli occhi e cogliemmo l’opportunità. Una volta messe le zampe a terra, ci allontanammo correndo nella speranza di sfuggire a quell’orribile fato. Gli umani si accorsero subito di noi e ci inseguirono. Il mio compagno era più anziano di me, un po’ claudicante e con grossi problemi di salute, così non riuscì ad allontanarsi abbastanza in fretta e fu ripreso. Mi arrivavano le sue urla disperate, ma io purtroppo non potevo fare nulla. Vicino al mattatoio c’era un boschetto con radi alberi e un po’ di sottobosco e, in un primo tempo, io mi diressi là, ma poi pensai che sarebbe stato il primo luogo dove mi avrebbero cercata, così cambiai direzione. Ripassai davanti al mattatoio – tenendomi ben nascosta alla vista degli umani – e presi un sentiero che conduceva a una collina. Non c’era molto verde che mi potesse coprire, così a un dato momento fui avvistata da un umano che imbracciò un fucile e mi sparò. Terrorizzata, inciampai e caddi. Quella fu la mia fortuna perché sentii l’umano con il fucile dichiarare: “L’ho preso. Lasciamolo là, possiamo recuperarlo dopo. Ora finiamo di scaricare gli altri, li portiamo dentro, poi mando Giovanni con una carriola a prendere il corpo.”
Quando vidi gli umani intenti a svuotare il camion e a trasferire i miei poveri compagni all’interno della struttura, mi alzai e me la diedi a gambe. Da lontano sentivo i grugniti pazzi di terrore dei miei compagni che venivano scannati vivi. È un suono che non dimenticherò mai, in tutta la mia vita!”
“Povera piccola!” esclama Shelley. “Ma ora mi prenderò cura io di te. O preferisci tornare nel tuo allevamento?”
“Stai scherzando?” chiedo allarmata. “Tu non sai che cosa ho dovuto subire laggiù.”
“E tu narramelo. Un po’ di racconti dell’orrore mi faranno bene.”
“Quando nacqui, non potei stare con la mia mamma perché lei si trovava in una gabbia, io e i miei fratelli e sorelle in un’altra. Avevamo giusto lo spazio per succhiare il latte e piangevamo tutto il tempo per la mancanza delle cure materne. Una volta svezzati, i maschi furono castrati e gli venne mozzata la coda, ovviamente tutto senza anestesia. Dopo qualche mese a tutti noi della cucciolata furono limati i denti in modo che non potessimo ferirci.
Ci separarono: le femmine in una gabbia, dove stavamo solo in piedi, immersi nei nostri escrementi e senza alcuna possibilità di movimento, e i maschi in un’altra. Eravamo nutriti con dei pastoni dall’orribile sapore dovuto ai medicinali che contenevano – così almeno mi spiegò un vecchio verro da una gabbia accanto alla mia. Le gambe mi si indebolirono tanto che non riuscivo più a stare in piedi, così decisero che ero pronta per il macello. Il resto della storia lo conosci già.”
“Sì, ma dimmi che cosa accade nei mattatoi esattamente.”
“Sempre il vecchio verro mi disse che i maiali che vi giungono sono tramortiti con delle iniezioni o con un colpo in testa e poi gli viene tagliata la gola. I corpi sono quindi appesi a dei ganci e gli umani cominciano a tagliare i pezzi di corpo che sono confezionati e inviati poi ai supermercati.”
“Già gli umani non mi stavano simpatici, ora li odio proprio!” esclama la mia amica con foga.
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(dal libro La fattoria dei sogni edito in luglio 2015)